CROTONE – Quattro condanne a un anno di carcere, per l’aggressione registrata nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Giovanni di Dio, avvenuta nell’agosto 2018.
Questa la sentenza emessa dal giudice Raffaella Dattolo nei confronti dei familiari di Claudio Costantino, il 34enne di Rosarno deceduto dopo 33 giorni di degenza, essendo affetto da Sla ed essendo insorte alcune complicanze (da un’infezione all’arresto cardiaco).
Sotto accusa per lesioni, danneggiamento e interruzione di pubblico servizio erano finiti Concetta Marasco, di 74 anni, madre della vittima, le sorelle Mara e Valentina Costantino e il fratello Aldo, rispettivamente di 45, 34 e 41 anni.
Gli imputati, dopo aver appreso la tragica notizia, si sarebbero scagliati contro medici e infermieri del reparto gettando a terra monitor, computer e tastiere e percuotendo gli operatori sanitari con calci e pugni e perfino con l’utilizzo di una spillatrice.
Al medico rianimatore Francesco Bossio fu procurato un trauma cranico giudicato guaribile in 15 giorni; lesioni della stessa entità riportarono anche tre infermiere ma soltanto una di loro, Franca Vasapollo, si è costituita parte civile e in suo favore il giudice ha disposto il risarcimento.
Quella sera l’intervento della polizia si protrasse fino a notte fonda per placare l’ira degli aggressori. Il pm Antonio Marullo aveva chiesto condanne a sei mesi per tutti. A
lle richieste di condanna si era associato l’avvocato Aldo Truncè, costituitosi parte civile nell’interesse di Vasapollo, che ha ricordato in aula l’escalation di aggressioni nei confronti del personale sanitario che indussero il Legislatore nel 2020 a introdurre una specifica aggravante e quindi un inasprimento delle pene.
Il legale ha ricordato che fu proprio Bossio, con estrema delicatezza, a riferire ai familiari la notizia del decesso di quel giovane che era entrato in reparto in condizioni critiche che non lasciavano speranze. Purtroppo la mamma non accettò l’idea della morte del figlio, forse illusa dalla manovra di rianimazione eseguita proprio da Bossio in occasione di un arresto cardiocircolatorio avvenuto durante la degenza. Ma le parole della donna furono «sibilline», ha detto l’avvocato Truncè, rievocando una velata minaccia: «mio figlio non deve morire altrimenti succede il finimondo».
Il legale ha poi ripercorso le modalità brutali dell’aggressione, «quattro contro uno» e la sofferenza dell’infermiera che si era chiusa in bagno, temendo che la porta venisse sfondata, e udiva il medico con cui da anni lavorava fianco a fianco «piangere come un bambino».
Ma la sua parte di botte l’ha avuta anche l’infermiera rimediando schiaffi e una tastiera scagliata in testa più minacce di morte a lei e ai familiari.
Ma quello che più rileva, forse «il patema nel salire le scale dell’ospedale da parte del collega dell’infermiera che temeva di trovare quelle persone che l’avevano aggredita e avevano preannunciato nuove violenze».
Analogamente, dopo quella storia, e soprattutto dopo 28 anni di onorato servizio, il medico Bossio «ha avuto il terrore di rientrare in ospedale ed ha abbandonato i reparti del nosocomio crotonese».
La sentenza è arrivata, dopo quattro anni e mezzo, ma è difficile dimenticare, perché da allora Bossio ha lasciato l’ospedale ed ha ottenuto il trasferimento in ambulatorio. L’avvocato Truncè ha valorizzato, nel corso della sua arringa, anche la testimonianza di una guardia giurata esperta in arti marziali al quale le due sorelle imputate avrebbero tentato di sfilare la pistola d’ordinanza. «Cosa sarebbe successo in quegli attimi concitati se quella guardia – ha detto ancora l’avvocato Truncè – non fosse stata preparata?».
L’avvocatessa Antonella Sciarrone ha evidenziato, invece, che non era specificata nel capo d’imputazione la condotta delle sorelle e che non vi era prova dell’aggressione con la spillatrice, ma ha anche sottolineato che da parte di due delle infermiere vi era stata remissione di querela e che il dottore Bossio non l’aveva proposta (ma si è proceduto d’ufficio).
Pur non giustificando la reazione dei suoi assistiti, l’avvocatessa ha però sottolineato che era riconducibile alla concitazione del momento, dovuta alla morte di un familiare.