Il Tribunale di Paola

PAOLA (Cs) – Il tribunale penale collegiale di Paola ha depositato le motivazioni della sentenza di condanna del maresciallo dei Carabinieri Michele Ferrante (https://www.calabriainchieste.it/2023/12/05/condannato-il-maresciallo-sceriffo-michele-ferrante-due-mesi-e-risarcimento-del-danno/).

A suo carico, com’è noto, una condanna a due mesi (pena sospesa): dovrà risarcire 1.000,00 euro alla parte civile (somma che sarà poi devoluta in beneficienza all’associazione Lanzino contro la violenza sulle donne) e 2.300,00 di spese legali sostenute dalla parte offesa.

La valutazione in merito alla responsabilità penale dell’imputato
 Ferrante è contenuta nelle motivazioni della sentenza, dove si parla di una «condotta anomala ed esorbitante dai poteri connessi alla qualifica di pubblico ufficiale dal medesimo rivestita».

Ma andiamo con ordine.

Secondo il tribunale, infatti, «deve essere affermata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato di perquisizione ed ispezioni personali arbitrarie».

Ciò sarebbe maturato nel contesto di una presunta «conflittualità tra la parte offesa» (incensurato e vittima del racket) «e il maresciallo dei Carabinieri che, per la precisione, era insorta qualche anno prima e che, in manieta anche piuttosto evidente, disvela l’atavico contrasto tra Arma dei Carabinieri e Polizia Stato».

«
E’ appena il caso di ricordare, infatti, come nel 2014, allorquando il Ferrante, consapevolmente o meno, non aveva acquisito la denuncia querela che il Di Domenico voleva sporgete ritenendo di essere vittima di estorsione, quest’ultimo si era rivolto alla Polizia di Stato che, dopo aver acquisito la suddetta denuncia, aveva ricevuto dal pubblico ministero la delega ad effettuate le indagini successive, addivenendo all’arresto di tre soggetti, poi condannati in via definitiva per il reato di estorsione».

Uno dei tre soggetti – aggiungiamo noi – è amico del Ferrante, tanto che, su facebook, l’estortore così si esprime a favore del maresciallo dei Carabinieri (appena si saprà della sua condanna per il reato di perquisizione ed ispezioni personali arbitrarie), che cerca pure di veicolare la falsa notizia di un’assoluzione: “Sono contento per te. La vera giustizia è quella divina ma tu sei riuscito ad avere anche quella terrena, quella che non sono riuscito ad avere io, Oggi mi unisco alla tua gioia, sei una persona perbene. Auguroni di cuore”, dice il condannato per estorsione al maresciallo amico, condannato in primo grado per aver abusato del suo ruolo.

E il Ferrante (uomo di giustizia) ribatte all’amico del cuore (pregiudicato): “Grazie. Purtroppo si è cercato di fare tanto odiens mediatico, ma alla fine la giustizia quella vera è prevalsa”, continuando ancora a veicolare la falsa notizia che è stato assolto.

Ma andiamo avanti.

Il Giudice scrive: «E’ innegabile – si legge, tra l’altro, nella sentenza – che l’odierno imputato abbia tenuto, anche solo per una piccola parte rispetto alla totalità dei fatti accaduti il 26.05.2016, una condotta anomala ed esorbitante dai poteri connessi alla qualifica di pubblico ufficiale dal medesimo rivestita».

E ancora: «Sicuramente positiva è la valutazione in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa» (l’ambientalista Davide Di Domenico, dipendente pubblico, incensurato: ndr) «con riferimento al reato contestato».

Tutta l’azione descritta dal Di Domenico, ivi compresi i momenti immediatamente successivi caratterizzati dall’arrivo di diverse persone sul posto, secondo i giudici «trova puntuale riscontro nella visione delle immagini estrapolate dalle telecamere di videosorveglianza posizionate proprio nelle immediate vicinanze dell’ufficio bancario» di Fuscaldo.

«A parere del Tribunale il reato di cui all’att. 609 c.p. può ritenersi integrato, quantomeno sotto il profilo oggettivo, atteso che il Ferrante ha posto in essere una perquisizione nei confronti del Di Domenico in assenza di uno dei presupposti previsti dall’art. 247 c.p.p., ossia il fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il corpo del reato ole cose pertinenti al reato”.

In effetti, «non si comprende quale fosse il reato commesso dal Di Domenico».

A questo punto, infatti, «non si può non sottolineare che tutto origina dallo scatto di una fotografia da parte della persona offesa, poi effettivamente rinvenuta sul suo cellulare, nei confronti di un gruppo di persone, tra cui figurava anche l’odierno imputato».

Ciò è accaduto durante un pubblico comizio.

Secondo il tribunale, pertanto, «non si può ritenere che una simile azione costituisca una fattispecie penalmente rilevante. 
Ne discende, dunque, come, non essendo stato commesso un reato, il Di Domenico non poteva occultare sulla sua persona alcun oggetto che costituisse il corpo del reato o una cosa pertinente ad esso».

«Che poi, se effettivamente il Ferrante avesse agito ritenendo penalmente rilevante la condotta del Di Domenico di fotografarlo senza il suo consenso, il corpo del reato sarebbe stato il telefono cellulare che, tuttavia, la persona offesa teneva in mano e non occultato nei pantaloni.

Né, infine, si può ritenere che l’imputato abbia agito in quel modo perché insospettito dal contenuto della busta di plastica in possesso del Di Domenico» (formaggio grattuggiato, ndr) «atteso che, in quel momento, egli se ne era già disfatto».

Peraltro, «l’atto di perquisizione posto in essere risultava arbitrario anche da un punto di vista meramente formale, non essendovi un decreto motivato del pubblico ministero né ricorrendo i presupposti previsti da alcune leggi speciali, che legittimano gli organi di polizia ad intervenire di iniziativa, ossia in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria», si legge ancora nella sentenza.

La fattispecie di cui all’art. 609 c.p., poi, risulta configurata anche sotto il profilo dell’elemento psicologico poiché il Ferrante, maresciallo dei Carabinieri da oltre venti anni, era sicuramente a conoscenza del fatto che, trovandosi per giunta libero dal servizio, stava ponendo in essere una perquisizione arbitraria.

Inverosimile appare, sotto questo profilo, la versione fornita dall’odierno imputato, ossia che egli abbia preso il portafoglio perché il Di Domenico glielo aveva chiesto; dalle immagini delle telecamere, infatti, si nota proprio il movimento tipico di ogni operante nell’atto di eseguire una perquisizione personale, tastando le varie parti del corpo che mal si concilia con la tesi di chi sta recuperando un oggetto con il consenso della persona interessata», spiega il Tribunale.

Sull’accusa di lesioni, invece, Ferrante è stato assolto perché – secondo il Tribunale – «non è stata adeguatamente fornita la dimostrazione che il fatto sussiste, anche alla luce della conttaddittorietà della prova emersa dalle deposizioni dei vari testimoni escussi che, in alcun modo, riescono a colmare quel difetto di attendibilità rilevato nel narrato della persona offesa».

Di Domenico, dunque, si è rotto un braccio durante quella perquisizione arbitraria, ma il Ferrante non sarebbe responsabile.

Questa la decisione di primo grado.

Vedremo, dunque, come si determinerà la Corte di Appello, dove il Ferrante, convinto di essere assolto (secondo quanto scrive su facebook), rinuncerà certamente alla prescrizione.