ROMA – Il dibattito politico sull’autonomia differenziata continua ad essere acceso, con circa 100 sindaci calabresi che hanno sollevato preoccupazioni sulla possibile incostituzionalità del disegno di legge (DDL) in questione.
Il senatore Ernesto Rapani ha risposto fermamente, criticando le loro posizioni e sottolineando la scarsa comprensione del DDL.
«È grave che i sindaci si lamentino, dimostrando di non conoscere il contenuto del DDL», ha dichiarato.
Secondo il parlamentare di FdI, le preoccupazioni dei sindaci sono infondate e riflettono una mancata lettura approfondita del testo legislativo. Rapani ha spiegato che il DDL sull’autonomia differenziata prevede un processo chiaro e regolamentato che garantisce l’uguaglianza tra le regioni.
«Questo DDL stabilisce linee guida precise che devono essere seguite per poter procedere, su richiesta delle regioni, al trasferimento delle funzioni», ha chiarito. Un aspetto importante del DDL è l’individuazione dei livelli essenziali di prestazione (LEP), che devono essere uguali per tutte le regioni e supportati da risorse finanziarie adeguate.
«Se non c’è copertura finanziaria, non si possono trasferire i LEP, anche se richiesti dalle regioni», ha osservato Rapani. Questo chiarimento mira a rassicurare che l’autonomia differenziata non comporterà disparità nei servizi essenziali tra le diverse regioni italiane.
Il senatore ha poi sottolineato l’importanza di un iter definito: «I parlamentari di FDI hanno incluso nel testo elementi per evitare disuguaglianze, con verifiche per controllare che i LEP siano uguali per tutte le regioni, finanziati e operativi. Solo quando il Governo verifica queste condizioni, si procede alla stipula dell’accordo per il trasferimento delle funzioni tra Governo e Regione».
La questione dell’autonomia differenziata rappresenta una delle maggiori contraddizioni del PD, rivelando incoerenza e un rischio per l’unità nazionale. «Tutto iniziò nel 2001», riferisce il senatore Rapani, «quando la maggioranza di centrosinistra modificò il Titolo Quinto della Costituzione, attribuendo più poteri alle Regioni, specialmente con l’articolo 116, terzo comma, che permetteva ulteriori autonomie regionali tramite legge ordinaria, mai realizzata.
Questo ha lasciato il Parlamento senza strumenti per gestire richieste esagerate delle Regioni, minacciando l’unità nazionale per oltre 23 anni. Nel 2017, la situazione peggiorò quando l’Emilia Romagna, guidata dal PD, insieme a Lombardia e Veneto, chiese formalmente nuovi poteri allo Stato.
Lombardia e Veneto lo fecero tramite referendum popolari, sostenuti dal Governo di centrosinistra. Questo innescò una corsa all’autonomia anche da parte di altre Regioni guidate dal PD, dimostrando incoerenza tra chi oggi si oppone all’autonomia differenziata.
Tra i governi tecnici, di centrosinistra e pentastellati, l’autonomia regionale accelerò, bypassando il Parlamento e ignorando il diritto dei cittadini a livelli essenziali di prestazioni (LEP), compromettendo l’equità nord/sud. Solo successivamente la procedura venne rettificata, garantendo il passaggio per le Camere e la definizione di principi inderogabili per preservare l’unità nazionale e l’uguaglianza nell’accesso ai servizi.
Le recenti relazioni della Corte Costituzionale e della magistratura amministrativa hanno evidenziato come la riforma del Titolo Quinto abbia aumentato le conflittualità tra Stato e Regioni. Gli emendamenti recenti assicurano standard uniformi su trasporti, sanità, scuola ed energia, salvaguardando l’unità nazionale.
La sinistra, in questa vicenda, ha mostrato un doppio volto: promotrice di un regionalismo esasperato e oggi paladina di una presunta unità nazionale. Una contraddizione pericolosa che non può essere ignorata».