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Ricordo di Don Peppino Vairo, “Luce e decoro dell’Episcopato”: avviato il processo di canonizzazione

Il canonico Giustino D’Addezio ha raccolto e pubblicato, in circa 700 pagine, gli atti preliminari dell’inchiesta diocesana, autenticati dalla Curia Metropolitana di Potenza

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Attilio Romano

PAOLA (Cs) – Lo chiamavamo tutti “Don Peppino” anche dopo la sua consacrazione episcopale. Io lo conobbi nel laboratorio di calzature del fratello Giovanni, il quale continuava il lavoro di calzolaio del vecchio genitore Francesco. Era un grande locale in cui lavoravano una decina di persone. Da lì uscivano le scarpe fatte completamente a mano, sia per uomini che per donne. Dallo stivale alle scarpine per ragazzi. Un vero calzaturificio artigianale che si trovava in Corso Garibaldi a Paola, di fronte alla chiesa di San Giacomo. Tutte le domeniche ed in occasione di altre feste durante l’anno i manufatti venivano esposti all’esterno del laboratorio per la vendita al pubblico. I lavoranti venivano pagati ogni settimana. Io frequentavo il laboratorio di pomeriggio per volontà di mio padre, dal momento che di mattina andavo a scuola e di sera prendevo lezione di musica dal capobanda del complesso musicale cittadino, maestro Domenico Maselli, il quale mi insegnava a suonare il clarinetto e sperava di farmi diventare un giorno maestro della banda locale. Ero, perciò, impegnato per l’intera giornata e così – secondo mio padre non creavo problemi considerata la mia vivacità. Ma quando il maestro Maselli propose a mio padre di mandarmi a studiare al Conservatorio di Napoli, mio padre rispose: “Se lui va a suonare a Napoli noi cantiamo a Paola!”. Eravamo già sette figli dei quali io ero il terzo. Anche mastro Giovanni aveva capito che nella vita non avrei fatto il calzolaio e cercava di utilizzarmi nel laboratorio del tomaio che è la parte superiore della scarpa. Creavo, soprattutto, modellini per le scarpe estive delle donne. Ma sapevo, comunque, come si forma una scarpa completa.Poiché in quel periodo mastro Francesco era gravemente ammalato ed io ero il più vicino ad abitare presso il Convento dei Padri Minimi, mastro Giovanni, d’accordo con don Peppino, mi mandava al Santuario di san Francesco per prendere l’acqua miracolosa della Cucchjareddae un pezzo di pane di san Francesco per il vecchio genitore che io portavo a casa consegnando il tutto alla mastra Rosa, moglie di mastro Giovanni.Don Peppino veniva spesso nel laboratorio per parlare con il fratello e chiacchierava pure con noi. A quell’epoca era già segretario dell’arcivescovo di Cosenza, mons. Aniello Calcàra. Viaggiava tramite ferrovia. Era stato ordinato sacerdote il 16 giugno 1940, pochi mesi prima dell’insediamento del suo Arcivescovo, nel Santuario della Madonna della Catena di Laurignano, una frazione di Dipignano presso Cosenza da mons. Eugenio Faggiano, vescovo di Cariati. Fu chiamato a svolgere il suo ministero sacerdotale nella chiesa della SS. Annunziata (Duomo) di Paola in qualità di Vicario cooperatore. Officiava pure nella chiesa di San Giacomo e reggeva la chiesetta di sant’Antonio presso il Cimitero cittadino. Per questo, ogni anno, nel periodo della mattanza dei maiali, veniva omaggiato, da parte di alcuni fedeli del pignatieddu ‘i sant’Antoniu che consisteva in un piccolo vaso con tre manici (come un porta fiori) in terracotta pieno di grasso di maiale che veniva portato in segno di devozione al Santo, anche se non si trattava di sant’Antonio abate, protettore degli animali. Allora lo strutto dei suini era un ingrediente molto utilizzato come condimento in cucina, perché in effetti sostituiva l’olio di oliva.Don Peppino fu anche insegnante di religione, di filosofia e pedagogia nell’Istituto Magistrale Parificato (solo femminile) “S. Caterina da Siena” della sua Città, frequentato da convittrici provenienti da altri paesi, chiamate educandee da ragazze dell’area cittadina.Monsignor Calcàra, umanista e poeta, non tardò a cogliere la dimensione culturale e la vocazione di don Peppino e lo nominò suo Segretario (1946) e Assistente diocesano della GIAC, della FUCI e del Movimento Laureati. Rivestì, poi, gli incarichi di Difensore del Vincolo, Promotore di Giustizia e Giudice sinodale del Tribunale diocesano. Fu canonico della Cattedrale dal 1952 e Vicario Generale dell’Arcidiocesi cosentina. Ma non cessò di frequentare la casa paterna di Paola dov’era nato il 24 gennaio 1917. Anche qui seguiva un gruppo di giovani universitari. Dotato di una intelligenza viva e straordinaria, ricco di una cultura vasta ed autodidatta sensibile e attento, oratore forbito e sempre con la voce stridula, con il suo sorriso, la sua cordialità, che affondavano le radici nella sua umiltà, don Peppino sapeva dialogare con tutti e in ognuno lasciava l’impronta del suo pensiero. I suoi compagni di studi al liceo lo chiamavano Ciceronee da studente in teologia San Tommaso.Io lo incontrai tante volte a Paola e lo ascoltai anche quando veniva a parlare di etica e politica durante alcune campagne elettorali nazionali, sconvolgendo la piazza e creando reazioni nei militanti di estrema Sinistra. Lo ritrovai a Cosenza allorché fui assunto (1960), su proposta di don Augusto Lauro (futuro vescovo di San Marco Argentano) presso la Poa-Onarmo in qualità di coordinatore delle Comunità di Lavoro dell’Arcidiocesi (Pie Unioni: Pescatori, Pastori, Braccianti, Assegnatari dell’Opera Valorizzazione Sila).Don Peppino non era contrario all’impegno dei cattolici in politica come non lo era Calcàra. Puntavano anch’essi al rinnovo di una classe politica che fosse anche portatrice di valori contemplati nel magistero sociale della Chiesa. Non a caso sostennero l’elezione di Riccardo Misasi, giovanissimo avvocato, laureatosi alla Cattolica di Milano, Presidente diocesano della GIAC, voluto, appunto, da don Peppino, al Parlamento. Misasi, a soli ventisei anni, già consigliere comunale a Cosenza, entrò a far parte della Camera dei Deputati e ne fu il più giovane (1958). Misasi, infatti, era stato escluso dalle liste elettorali della Democrazia Cristiana cosentina e, per intervento di monsignor Calcàra, fu inserito a Roma. Lo stesso Arcivescovo, su input di don Peppino, ne chiese ufficialmente il sostegno al clero diocesano. Misasi, colto e protagonista di idee nuove fece parte della “Sinistra di base” della Democrazia Cristiana, di coloro, cioè che il cardinale Ottaviani, con riferimento dispregiativo anche per gli ecclesiastici che li sostenevano, chiamava “comunistelli di sacrestia”, non solo per le loro tesi programmatiche, ma anche per l’apertura ai socialisti che essi propugnavano. Apertura a Sinistra: alle nuove sensibilità di una società in rinascita dopo una guerra devastante.Era tutto un mondo che si muoveva verso il nuovo e la mossa veniva da lontano, soprattutto nel mondo cattolico. Dalla Rerum Novarumdi Leone XIII ai Liberi e forti di Luigi Sturzo, all’Umanesimo integrale di Jacques Maritaine, alla Nuova Frontiera di John Kennedy, alle teorie filosofiche e teologiche di avanguardia di pensatori francesi e tedeschi e poi al Concilio Vaticano II del quale egli fu uno dei Padri più giovani e incisivi. Valori, pensieri, riflessioni che don Peppino metabolizzava nel suo essere uomo che non veniva dalla ricchezza, nella sua mente di pensatore e nella sua anima di sacerdote. Tutto ciò elaborava il suo pensiero che egli non mancava di trasmettere, sia negli incontri liturgici che in quelli culturali, in una coerenza di vita esemplare. I suoi scritti, tutti raccolti (Lettere pastorali, omelie, interventi culturali e conciliari, discorsi, riflessioni), sono impregnati di teologia, filosofia, sociologia, antropologia e costituiscono un vero e proprio magistero.Don Peppino a Cosenza abitava nel Collegio arcivescovile e la finestra del suo studio dava sulla piazza del Palazzo episcopale (Piazza Parrasio). Io avevo l’ufficio a pochi passi dal Caffè Renzelli su Corso Telesio, accanto alla sede tipografica del settimanale Cronaca di Calabria al quale già collaboravo e passando la mattina, vedevo spesso don Peppino dalla finestra. Lo salutavo con un gesto della mano e lui rispondeva con lo stesso segnale aggiungendo un sorriso.Il primo luglio del 1961 mons. Aniello Calcàra annunzia nella Cattedrale, la nomina a vescovo di don Peppino. La cosa era nell’aria, anche perché l’arcivescovo era anziano e sofferente e ci teneva tanto ad avere come ausiliare colui che egli chiamava il mio Angelo. Don Peppino, già dal 1959 era Prelato del papa e vicario generale dell’Archidiocesi cosentina. La nomina era come titolare della diocesi di Utina e ausiliare di Cosenza. Ma Utina un’antica località della Tunisia, esisteva solo sulla carta.L’euforia della nomina si spense dopo appena quattro giorni, quando, il 5 luglio, venne a mancare l’arcivescovo Calcàra mentre si trovava nella residenza di Cerisano e don Peppino era nella Casa dell’Artista a Lorica, in Sila, per un ritiro spirituale del Clero. Quel giorno, dalla finestra del mio ufficio che affacciava sul cortile interno del Palazzo io vidi il corpo dell’Arcivescovo su un furgone scoperto che veniva trasportato nella sede episcopale. Da allora il neo vescovo non divenne più ausiliare ma Amministratore apostolico dell’Arcidiocesi. Il 20 agosto 1961 don Peppino fu consacrato vescovo nella Cattedrale traboccante di popolo. Aveva 44 anni. Il consacrante fu monsignor Giovanni Rizzo, arcivescovo di Rossano Calabro con il quale concelebrarono monsignor Umberto Altomare, ausiliare di Mazara del Vallo, già suo compagno di studi e monsignor Raffaele Barbieri, vescovo di Cassano Jonio. Quattro giorni dopo, il 24 agosto, il neo presule viene accolto con una manifestazione di affettuoso tripudio a Paola. I Paolani, infatti, appresa la notizia che il loro carissimo don Peppino era diventato vescovo avevano provato una emozione insolita ed una gioia incontenibile. Sapevano essi che tale avvenimento prima o poi si sarebbe verificato, lo sentivano, ne erano certi, perché conoscevano il valore del loro Compaesano, il fascino del suo ministero, l’eloquenza trascinatrice della sua parola, la rarità delle sue virtù, la sua incrollabile fede, la sua passione per lo studio nei diversi campi del sapere, la sua profonda dottrina. Ma conoscevano, soprattutto, il suo attaccamento verso la figura di san Francesco di Paola, del quale egli non cessò mai di perdere di vista il messaggio di carità e l’esempio di vita. Era anche terziario dell’ordine dei Minimi e ne viveva la regola. Il sindaco del tempo, Antonio Lo Gatto gli fece dono di un Pastorale, nel quale era stata applicata un’effige del Santo taumaturgo. Era il segno più significativo della sua città che avrebbe sostenuto il presule nel suo percorso episcopale Pastore; percorso che si rivelò itinerante e lungo, ma proficuo ed esemplare.Io gli feci omaggio di un album con la fotocronaca della visita a Paola che ora conserva la nipote Adele, figlia di mastro Giovanni.Durante il breve periodo in cui svolse le funzioni di Amministratore Apostolico, trovò anche lo spazio di tempo per intervenire ad alcuni incontri residenziali che io organizzavo in Sila (Serracandela) per gli associati alle comunità di lavoro. Si andava in tre: lui don Augusto Lauro ed io. Don Augusto (presidente dell’Opera Diocesana di Assistenza) guidava la propria macchina, una vecchia Fiat che solo lui poteva guidare, considerato le condizioni precarie dell’automezzo. Don Peppino era coinvolgente con la sua parola che esprimeva con passione. Ma sorprendeva con la sua capacità di comunicare anche la conoscenza che egli aveva delle problematiche di quelle categorie. Un uomo del Sud che conosceva bene i problemi del Sud.Il suo mandato terminò il 28 ottobre 1961 allorché si insediò il nuovo titolare mons. Domenico Picchinenna, arcivescovo di Acerenza (PZ). Un uomo buono e mite. Don Peppino, da quel giorno si ritirò a Paola, nella casa paterna e restò in famiglia con il fratello Giovanni, per aspettare la comunicazione della nuova sede episcopale. L’attesa fu lunga, ma egli la visse con dignità e serenità e con l’attenzione, anche economica, che gli veniva da qualche suo confratello. Celebrava Messa nella Cappella delle Suore Domenicane dove viveva pure la sorella Maria Rosaria che aveva assunto il nome di suor Valentina. Nessuno sapeva spiegarsi i motivi del ritardo di una nuova destinazione. Alcuni preti, parlottando fra loro, ritenevano che in Vaticano fosse considerato un progressista di sinistra per il suo impegno di rinnovamento nell’Azione Cattolica. Ma io stesso che ero fra coloro che venivano considerati comunistelli di sagrestia, anche quando fui chiamato da Misasi nel gruppo dei suoi collaboratori politici, non ho mai sentito don Peppino profferire una parola che avesse potuto contaminare la Chiesa. Nel gennaio 1962 fu trasferito alle Chiese di Gravina di Puglia (BA) e Irsina (MT). Sedi certamente inadeguate per la sua statura intellettuale e culturale perché prive di cultura e di mordente. Da lì inizio la sua peregrinatiovescovile che sarebbe culminata nell’Arcivescovado di Potenza. Non volle andare oltre per rimanere nel popolo della Basilicata così fortemente provato dal terremoto del 23 novembre 1980. In quella sfortunata vicenda si rivelò Padre e Pastore e ai preti che chiedevano la ricostruzione delle loro chiese, egli rispondeva fermo e determinato: prima le case della gente, poi le chiese. Passò alla storia della Basilicata come il Vescovo dei terremotati.Lo incontrai altre volte quando passavada Paola. E quando partecipò a tutti i lavori del Concilio Vaticano II, i Paolani ed i Calabresi ci sentivamo orgogliosi di lui, allorché venivamo a sapere dei suoi interventi in latino. Fu uno dei padri conciliari più giovani ed apprezzati. Quell’evento, era stato voluto da quel Papa, Giovanni XXIII, che in un’udienza privata, aveva detto al nostro don Peppino: tu non volevi essere vescovo e neppure io volevo fare il Papa ora io sono Papa e tu sei vescovo!Anche Paolo VI ebbe tanta stima di lui e lo stesso Giovanni Paolo II in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio (16 giugno 1990), gli inviò un telegramma autografo (30 maggio 1990) in cui si legge: Mons. Vairo è luce nella caligine, aiuto ai provati nella tragedia, speranza a chi dispera, partecipa agli affanni dei sofferenti, incoraggia gli sfiduciati e gli avviliti, soccorre i bisognosi come buon samaritano per coloro che sono in qualsiasi modo colpiti. Per lui ognuno di loro è Cristo e come Cristo li tratta. Egli è decoro e luce del sacerdozio e dell’episcopato; con l’esempio della sua vita insegna ai sacerdoti come camminare per le vie del Signore, come esercitare il ministero; ai fedeli mostra di essersi fatto servo per guadagnare molti. Don Peppino lasciò il suo impegno episcopale, per raggiunti limiti di età, il 6 marzo 1993 e pochi giorni dopo venne a Paola per ringraziare il suo Santo al quale si era sempre ispirato per l’umiltà per la povertà e per la carità. Celebrò una messa solenne e tenne un’omelia che fu un vero e proprio discorso carico di fede, di umanità, di devozione e di gratitudine. La Basilica era stracolma di Paolani e non. Aveva portato al Santo il suo servizio di sacerdote e di vescovo come un dono sacro. Al termine della funzione religiosa, mi recai in sagrestia per salutarlo. “Carissimo, disse quando mi vide. E mi abbracciò. Io gli offrii una copia del mio libro ‘U Santu nuostu” dicendogli: “Questo è il mio regalo!” e lui rispose: ”E questo è il mio!” e mi fece omaggio del suo volume Venticinque anni di dialogo pastorale. Pochi giorni dopo ricevetti una lettera che mi scrisse da Paola dove si era fermato che porta la data del 20 marzo 1993: “Carissimo Attilio, grazie per gradito omaggio del bel volume ‘U Santu nuostu con relativa cassetta. L’idea di una recital sul nostro Santo con poesie e canti nel nostro dialetto è veramente originale. Il nostro dialetto non deve scomparire: contiene cristallizzata tanta nostra storia e tanta esperienza quotidiana. Esprimo pertanto il mio vivo compiacimento auspicando che il carissimo Attilio, con la sua vena ispirata, e con la sua fede sentita e pietà vissuta possa darci qualche altro saggio della sua arte. Con affetto benedico mons. Giuseppe Vairo Arcivescovo emerito di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo.” .Don Peppino morì il 25 luglio 2001 a San Giovanni Rotondo, a 84 anni, dove aleggia lo spirito di san Pio da Pietrelcina. La città di Paola lo ricorda già con l’intitolazione di un Largo nel centro storico (Rione Rocchetta) e una piazzetta presso il Duomo.Mentre stavo ultimando la stesura di questo mio ricordo, ho appreso, con viva emozione, che è stato avviato il processo di canonizzazione di don Peppino. Il Presidente del Capitolo cattedrale di Muro Lucano (PZ), infatti, il canonico Giustino D’Addezio, ha raccolto e pubblicato, in circa 700 pagine, gli atti preliminari dell’inchiesta diocesana, autenticati dalla Curia Metropolitana di Potenza.E anch’io sono profondamente lieto di avere incontrato sulla mia strada un Uomo che ci ha lasciati in odore di santità perché era un Uomo di Dio. Attilio Romano

 

BIBLIOGRAFIA DI APPRONDIMENTO

AA.VV., Un Pastore e Maestro di verità e di vita, testimonianze, Curia Arcivescovile di Potenza, 2002

CASSESE Vito, Monsignor Giuseppe Vairo, Editore Rubbettino, Soveria Mannelli(CZ), 2009

D’ADDEZIO Giustino (a cura di), Il vescovo… arcivescovo Giuseppe Vairo, raccolta Atti per l’indizione del processo di canonizzazione, pubblicazione a cura della Diocesi di Muro Lucano (PZ), 2011

ROMANO Attilio, Trionfale accoglienza a monsignor Vairo, Parola di Vita, anno XL, n. 24, pag. 4 del 31.08.1961, Cosenza

ROMANO Attilio, Le festanti accoglienze di PaolaCronaca di Calabria, anno LIX, n- 58 del 3.09.1961, Cosenza

SOAVE Edmondo, Monsignor Giuseppe Vairo il sequestrato di Dio, Edizione Osanna, Venosa(PZ), 2011

TELESCA Vitantonio (a cura di), Luce e decoro dell’episcopato, Ed. Stes, Potenza, 1999

VAIRO Giuseppe Venticinque anni di dialogo, Laurenziana, Napoli, 1986