Il tribunale di Catanzaro

CATANZARO

 «Quello di Catanzaro è, per quanto dato sapere, l’unico tribunale distrettuale italiano nel quale il numero dei pubblici ministeri supera, e di gran lunga, quello dei giudici». Lo scrive il Consiglio direttivo della Camera Penale “Cantafora” di Catanzaro.

«Ognuno di noi lo sa, da quando indossa per la prima volta la toga: l’avvocatura non può essere tenuta lontana dalla politica giudiziaria. È nei nostri doveri, prima ancora che tra le nostre prerogative – denuncia ancora la Camera Penale di Catnzaro –  quello di partecipare al dibattito sulle riforme legislative, sulle prassi giudiziarie e, in generale, su tutti i temi che incidono sulla tutela dei diritti. Fa parte del nostro giuramento perseguire “i fini della giustizia e a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”. E l’avvocatura non può, non deve e non vuole rinunciare a una componente significativa, tra le responsabilità connesse al proprio ministero: essere guardiana dei diritti».

Quando gli avvocati «segnalano le criticità della giurisdizione è la collettività – che a loro ha affidato la tutela dei diritti fondamentali – a esprimersi. E nessuno può pensare di godere di spazi di insindacabilità o statuti di infallibilità. Sarebbe un ragionamento proprio di uno stato teocratico, nel quale il potere non ammette critica, perché promana direttamente da Dio. Questi sono gli apriori logici, se si vogliono affrontare i problemi della giustizia e tentare di risolverli tutti insieme, nella consapevolezza che, senza il sapere e la collaborazione degli avvocati, ben poco può essere fatto».  

E veniamo al punto: «Uno dei principali problemi per la macchina giudiziaria è, oggi, quello relativo ai numeri delle risorse impiegate nella organizzazione degli uffici. La scopertura di organico tra magistrati e personale di cancelleria è fenomeno endemico. Ma i numeri, nel distretto catanzarese, dicono altro (e oltre) e sembrano segnare, anche in tema di distribuzione delle risorse, il ricorso al “doppio binario”, che è ormai diventato, nell’amministrazione della giustizia, l’ordinario».

Quello di Catanzaro è, per quanto dato sapere, «l’unico tribunale distrettuale italiano nel quale il numero dei pubblici ministeri supera, e di gran lunga, quello dei giudici. Quando ci si è preoccupati di irrobustire la pianta organica della Procura, ci si è dimenticati di potenziare parallelamente anche l’organico dei giudici, così concorrendo a causare un problematico effetto a “imbuto”».

Nel senso che «se con obiettività si pensa che sotto la direzione di ogni p.m. operano decine di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, non ci si può non rendere conto – rimarcano i penalisti – che ogni giudice deve controllare il lavoro svolto da centinaia di persone, con ritmi assolutamente insostenibili. Ora, poiché i giudici non possono denegare una risposta e il codice di rito spesso impone termini perentori o comunque presidiati da responsabilità disciplinare, a soffrirne non può che essere la qualità di quell’intervento di controllo del lavoro investigativo, che segna il discrimine tra la libertà e la detenzione, tra il diritto di proprietà e l’ablazione, tra il benessere e il fallimento, tra la considerazione sociale e la berlina, tra la vita e la morte (civile)».

Non sono temi, questi, «sui quali si possono lesinare risorse, impegno, lotta. La sezione gip del tribunale di Catanzaro, sede del distretto, è composta da meno di dieci giudici, a fronte di settantaquattro magistrati del pubblico ministero presenti nelle varie procure circondariali e in forza alla Dda».

La sezione Riesame del tribunale di Catanzaro, «con un organico di soli sette magistrati, è ordinariamente investita da migliaia di procedimenti de libertate e ciclicamente travolta da maxi-operazioni con centinaia di cautelati. Come se non bastasse, si deve occupare delle misure di prevenzione, non solo nella fase genetica e conclusiva, ma anche, se non soprattutto, nella fase gestoria dei patrimoni sequestrati e in attesa di confisca, nella quale a quei giudici è richiesta la risoluzione di questioni complesse di natura civile, giuslavoristica, commerciale, fiscale, societaria e altro».

Ecco perché «gli avvocati hanno criticato severamente le contestazioni, spesso infondate, dell’aggravante mafiosa, così come l’uso disinvolto dei cosiddetti maxi processi (anche quando se ne potrebbe -e dovrebbe- fare a meno). Detto modus operandi mette i Giudici in affanno, ne satura il lavoro, costringendoli a pronunciarsi sulla vita e sulla libertà delle persone senza poter disporre della quota di tempo necessaria a una valutazione laica e serena. Li espone, inevitabilmente, a una maggiore percentuale di errore nei confronti di vittime innocenti».

È evidente, dunque, che «senza i necessari e rapidi correttivi, un sistema asimmetrico così congegnato rischia di soffocare (ulteriormente) i diritti di libertà.  Alle nostre latitudini, infatti, il crinale sul quale si gioca l’efficienza della giurisdizione ha almeno due versanti. Il primo, logistico. Occorrono maggiori risorse. Urge aumentare il numero dei giudici nelle sezioni penali e istituire, come avvenuto in altri tribunali, una sezione promiscua che si occupi di prevenzione, fallimenti ed esecuzioni, in modo tale da assicurare, grazie alle diverse professionalità impegnate, l’effettivo controllo anche sulla attività degli amministratori giudiziari e, nel contempo, alleggerire la pressione sulla sezione Riesame».

Su detto versante, «l’avvocatura penalista è pronta a unire con forza la propria voce a quella della magistratura e del presidente del tribunale, dott. Rodolfo Palermo, che da tempo si batte in tale direzione. Il secondo, culturale. Va alleggerito il ricorso alla leva cautelare, perché troppo spesso i processi si concludono con l’assoluzione dei cautelati. Va utilizzata con maggior prudenza la contestazione dell’aggravante mafiosa, che frequentemente è disconosciuta in giudizio e che, oltre a consentire la dilatazione temporale delle misure coercitive, sottrae l’indagato al proprio giudice naturale sottoponendolo a quello distrettuale».

E, poi: «Va limitata l’istruzione di maxi-processi per reati eterogenei e non connessi secondo una delle ipotesi codicistiche, perché tale prassi ha un costo economico e sociale enorme, ostacola la ragionevole durata del processo, stigmatizza l’imputato oltre la contestazione concretamente elevata».

Se si vuole migliorare la risposta della giurisdizione sul piano logistico, «la Camera penale è pronta a fare la propria parte in ogni sede, senza alcun pregiudizio. È pronta a discuterne seriamente con la Magistratura, così come accade in altri distretti, al fine di individuare soluzioni comuni e condivise. È pronta a sollecitare il dibattito parlamentare».

Ma occorre anche «un diverso approccio culturale. Occorre che l’avvocatura sia considerata un interlocutore e non un ostacolo; occorre che si abbandoni quel senso di lesa maestà che non consente di comprendere quello che da sempre si sostiene: gli avvocati penalisti sono politicamente impegnati a tutelare i valori liberali del diritto penale e del giusto processo, si battono per l’effettiva parità delle parti processuali e per l’efficienza della giurisdizione e, soprattutto, auspicano un giudice forte, indipendente e sereno. In questa battaglia di civiltà “non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente” (Marthin Luther King)».