Per Domenico Mamone, presidente dell’Unsic, sindacato datoriale di imprenditori e coltivatori «bene il dietrofront della Commissione europea sull’uso degli agrofarmaci, legittime le richieste di riduzione dell’Irpef, di agevolazioni fiscali sul gasolio o della cancellazione del 4% dei campi incolti per un settore agricolo sempre meno redditizio e a rischio di tenuta occupazionale».
Proficuo sarebbe «il rafforzamento del ruolo dei Centri di assistenza agricola e degli organismi di consulenza aziendale o l’incentivo per la diffusione di mezzi agricoli a trazione elettrica e l’uso delle rinnovabili. Tuttavia, al di là delle sacrosante rivendicazioni del momento, c’è un elemento primario che differenzia le produzioni italiane – e in particolare del nostro Sud – rispetto alle merci dell’agribusiness globalizzato, omologante e intensivo: la qualità. Se la concorrenza andrà al ribasso, non ci sarà futuro per il nostro settore. E ciò investe principalmente il Mezzogiorno, possibile terreno di conquista da parte delle multinazionali: cioè c’è una ‘questione meridionale’ che non può essere ignorata nella lista dei problemi».
C’è una linea di demarcazione «tra chi, anche a livello di rappresentanza del comparto, sta dalla parte delle multinazionali o di quelle aziende della grande distribuzione che importano prodotti estranei ai requisiti sanitari e ambientali del nostro Paese e fanno cartello e speculazione sul prezzo, e chi si batte perché i fondi europei non finiscano nelle tasche di coloro che intendono annientare proprio le nostre produzioni locali, ad iniziare da quelle del Mezzogiorno – continua il numero uno dell’Unsic, organizzazione che ha inviato un articolato documento sulla materia ai rappresentanti del governo.
Nelle lotte di questi giorni, i coltivatori dell’Unsic «inseriscono anche la salvaguardia dell’agricoltura e della zootecnia sane e tradizionali, che non significa chiudersi a riccio verso l’evoluzione tecnologica o scientifica, ma rifiutare le logiche unicamente quantitative che impone un mercato distorto, con complicità politiche a Bruxelles. Il nostro Mezzogiorno, che ha molto da insegnare a tutti sulla qualità, necessita principalmente di attenzioni, di fondi ben canalizzati, di valorizzazione delle eccellenze».
Non dimentichiamo che «le regioni italiane con più aziende agricole sono la Puglia (191mila) e la Sicilia (142mila), con la Campania (79mila) al quarto posto. Nel biologico dominano Sicilia, Calabria e Basilicata, che hanno superato la soglia del 25%, indicata dalla strategia Farm to Fork come traguardo al 2030. L’Abruzzo negli ultimi dodici anni ha raddoppiato la superficie certificata bio, superando il 15%. La Puglia con l’11,1%, la Sicilia con il 6,5% e l’Abruzzo con il 4,8% hanno quote rilevanti della produzione nazionale di vino. La Campania con 896 milioni, la Puglia (678 mln), la Sardegna (572 mln) e la Sicilia (545 mln) vantano un rilevante impatto economico di Dop e Igp, per quanto ci sia molto da fare nelle altre regioni meridionali. Il Molise ha il primato nazionale per quantitativi di tartufo, ma purtroppo è carente la valorizzazione regionale e tanto prodotto finisce nelle sagre del Nord Italia come eccellenza locale».
Infine: «Potrei continuare all’infinito con le eccellenze meridionali: credo che nel delicato passaggio di questi giorni, il dato non possa essere ignorato, come purtroppo sta avvenendo».
stefaniasapienza@calabriainchieste.it