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Gabriele Carchidi (“Iacchitè”) radiato dall’Albo dei Giornalisti

Offese al senatore Mangialavori. Il collegio dispone che la sanzione resti sospesa fino alla decisione del Consiglio Nazionale qualora il giornalista presenti impugnazione

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MILANO – Il giornalista professionista cosentino Gabriele Carchidi, direttore del giornale Iacchitè, è stato radiato dall’Albo dei Giornalisti della Lombardia con provvedimento del 26 marzo 2024, firmato dal presidente del consiglio di disciplina Fabio Benati, dall’estensore Paolo della Sala e dal consigliere Antonella Crippa.

“….il Consiglio di Disciplina della Lombardia – si legge negli atti – ritiene inevitabile comminare al giornalista Gabriele Carchidi la sanzione della radiazione dall’Albo dei giornalisti.

Dispone che la sanzione resti sospesa fino alla decisione del Consiglio Nazionale qualora Gabriele Carchidi presenti impugnazione avverso il presente provvedimento e, comunque, fino allo spirare del termine previsto dall’art. 60 della legge n. 69 del 1963, per presentare ricorso al Consiglio di Disciplina Nazionale”.

Alla base del provvedimento, notificato all’interessato e alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Milano, una segnalazione del senatore Giuseppe Mangialavori, che poneva all’attenzione dell’organismo di categoria una serie di comportamenti considerati deontologicamente rilevanti.

“…il Carchidi – si legge, tra l’altro, nel provvedimento – è stato sanzionato per non aver adempiuto agli obblighi deontologici con una Delibera di censura per non essersi registrato alla piattaforma della Formazione Professionale per il triennio 2014/2016 e anche il Carchidi di fronte al suo Collegio giudicante, pur mantenendo nella forma un atteggiamento educato e cortese, nella sostanza ha dimostrato di non avere la minima intenzione di adeguarsi alle regole che disciplinano la professione e neppure di dare il minimo peso alle sanzioni anche molto gravi che gli sono state ad oggi comminate.

Egli, dunque, ha certamente il diritto di esprimere le proprie opinioni ma non può farlo nella sua qualità di giornalista se, come risulta palese, non intende in nessun modo mutare il proprio modo di interpretare la professione (e ciò nonostante le sanzioni disciplinari e le condanne in sede penale).

Il Collegio ritiene integrate tutte le violazioni contestate (con la precisazione che si farà per quella sub art. 8 lett. c) e ritiene che egli abbia redatto personalmente tutti gli articoli (la paternità è stata, peraltro, sostanzialmente riconosciuta in sede di audizione, pp. 8-9) e, in ogni caso, va considerato che è a lui riconducibile la responsabilità della pubblicazione quale direttore responsabile della testata.

In particolare sono integrate sia la violazione dell’art. 2 della L. 69/63 (nella parte in cui impone l’osservanza delle norme di legge a tutela della dignità delle persone, del rispetto inderogabile della verità sostanziale dei fatti e, particolarmente, del dovere di lealtà e buona fede espositiva) che quella dell’art. 2 del Testo Unico.

Di quest’ultima norma sono contestate sia la lett. a) che la lett. b) in cui si richiama il dovere raccogliere, elaborare e diffondere con la maggiore accuratezza possibile i fatti che abbiano un pubblico interesse, secondo la verità sostanziale dei fatti e si invita al rispetto dei diritti fondamentali delle persone (fra cui, evidentemente, l’onore e la figura pubblica dei singoli).

La continua violazione del principio di continenza espressiva (del resto, almeno questa, riconosciuta in sede di audizione, pagg. 20-21), soggettive rispetto ai dati obbiettivi di cui egli sia in possesso (e questo su aspetti di eccezionale delicatezza anche in relazione al contesto territoriale di riferimento, ove reiterare l’accusa di essere un ‘capobastone’ della ‘ndrangheta marchia pubblicamente un soggetto), la reiterazione della condotta con una campagna di stampa martellante e soggettivamente orientata costituiscono elementi di assoluta gravità.

Ciò, si badi bene, non perchè sia inibito scrivere che un senatore della Repubblica abbia, in ipotesi, rapporti ambigui e intrattenga relazioni opache con soggetti appartenenti alla peggiore criminalità organizzata e che la sua elezione sia frutto anche di questa ambiguità, ma perchè questo è ben diverso dall’affermare, senza alcun elemento concreto e, anzi, essendo consapevoli che il soggetto “bersaglio’ non è stato neppure iscritto nel registro degli indagati, che quel soggetto è affiliato, intraneo, se non addirittura con ruoli apicali, alla ‘ndrangheta e che, di fatto, la sua attività politica ne è consapevole emanazione.

L’utilizzo martellante di un nomignolo irridente ed offensivo (Peppe ‘ndrina) che serve a qualificare negativamente il soggetto in modo non equivocabile costituisce elemento di volontà diffamatoria con un livello assai alto di intensità: non vi è alcuno spazio alla putatività quando è esplicita la piena consapevolezza della mancanza di riscontri adeguati alla gravità delle affermazioni rese.

Ciò che più importa in questa sede è che questo avviene senza il rispetto della verità sostanziale dei fatti per come ragionevolmente ricostruibili sulla base degli elementi in possesso del giornalista.

Tutto ciò in un contesto di precedenti disciplinari motivati da violazioni simili, dall’uso criminalizzante delle parole e senza il minimo rispetto dei principi deontologici in materia di accuratezza delle fonti e delle notizie raccolte e in violazione del principio (anche disciplinare) secondo cui “in tema di diffamazione a mezzo stampa, nel cd. “giornalismo d’inchiesta” a rilevare è l’esigenza della valutazione, non tanto dell’attendibilità e veridicità della notizia, quanto piuttosto del rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede, oltre che della maggiore accuratezza possibile nella ricerca delle fonti e della loro attendibilità, dal che consegue che è scriminato il giornalista che eserciti la propria attività mediante la denuncia di sospetti di illeciti, allorché i medesimi, secondo un apprezzamento caso per caso riservato al giudice di merito, risultino espressi in modo motivato e argomentato sulla base di elementi obiettivi e rilevanti e mediante il ricorso, attraverso una ricerca attiva, a fonti di notizia attendibili”) (Cass. Civ. cit. par. 2.4).

Nè può accettarsi che il giornalista utilizzi, come è avvenuto in questo caso, “toni allusivi, insinuanti, decettivi, ricorrendo al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato” (Cass. n. 27592 del 2019).

Anche la violazione dell’art. 8, lett. a) del Testo Unico risulta chiaramente integrata posto che il Carchidi, se mai, ha applicato il principio inverso e, cioè, una sorta di ‘presunzione di colpevolezza’ su fatti di formidabile gravità che non trova base adeguata negli atti a sua disposizione, laddove egli condanna come partecipe (se non come capo o promotore) di una associazione per delinquere di stampo mafioso chi neppure stato mai sottoposto a processo per questo».

Guido Scarpino