PAOLA (Cs) – Progressi della medicina, ruolo sociale del medico, crisi del sistema sanitario, formazione dei camici bianchi, carriera universitaria bloccata, liste di attesa, autonomia differenziata: questi e tanti altri argomenti di attualità, rilevante e scottante interesse pubblico, sono oggetto di una qualificata riflessione in una intervista concessa a Calabria Inchieste da una fonte autorevole, il professor Elmo Mannarino.
Professore ordinario della facoltà di medicina e chirurgia del corso di laurea magistrale dell’università di Perugia, dove si è laureato nel lontano 1970.
Elmo Mannarino è calabrese, originario di Paola, ed ha assistito da protagonista alla trasformazione della medicina di questi ultimi cinquant’anni.
Ha rivestito, tra l’altro, ruoli prestigiosissimi in ambienti universitari e ospedalieri: è stato presidente della Scuola Interdipartimentale di Medicina e Chirurgia dell’ateneo umbro, ma anche direttore del dipartimento di Medicina interna e specialistica dell’azienda ospedaliera di Perugia.
Elmo Mannarino ha altresì svolto il prestigioso ruolo di direttore di più scuole di specializzazione della medesima università ed è stato anche coordinatore del corso di dottorato in patologia clinica dell’arterosclerosi.
Un addetto ai lavori autorevole e qualificato, dunque, che, con umiltà e disponibilità, ha accettato di fare il punto su alcuni problemi della sanità italiana sulla base dell’esperienza maturata e su come eventualmente intervenire con adeguati correttivi volti a razionalizzare le tante falle del sistema.
PROGRESSI DELLA MEDICINA, PROFESSIONE MEDICA OGGI AL FEMMINILE, RUOLO SOCIALE DEL MEDICO
Professore, durante la sua prestigiosa carriera ha assistito alla trasformazione della medicina degli ultimi cinquant’anni. Si è trattato di una trasformazione sostanziale del settore o no?
«Si, è proprio così. La medicina è andata incontro a una vera e propria rivoluzione. Tanti sono stati i progressi registrati negli ultimi 50 anni.
Quando mi sono laureato, ad esempio, non esistevano le ecografie, le tac, le risonanze magnetiche e gli esami endoscopici. Però la formazione del clinico a quel tempo era molto rigorosa. Non avendo molti strumenti a disposizione, ci insegnavano a raccogliere e valorizzare ogni dettaglio della storia clinica del paziente, in modo puntiglioso e utile ai fini della diagnosi.
Eravamo allenati alla registrazione minuziosa di qualsiasi sintomo che potesse orientarci correttamente. E’ chiaro che allora, molto spesso, la diagnosi non era facile e ci si arrivava tante volte, in maniera certa, solo aprendo il torace o l’addome o, addirittura, post mortem. Oggi molto spesso non è così».
«Quando mi sono laureato io, peraltro, a differenza di quanto accade oggi, ci trovavamo di fronte a una medicina “di genere”, visto che la professione era esclusivamente appannaggio del sesso maschile.
Immagini che nel mio corso di laurea su 80 iscritti solo 4 erano donne, peraltro bravissime e che hanno fatto carriere strepitose.
Oggi, tuttavia, sembrerebbe siano molte di più le donne ad esercitare la professione di medico rispetto agli uomini, e questo è un bene perché rappresenta un valore aggiunto.
Personalmente, in questi anni, molti dei miei collaboratori ed aiuti sono state donne. Questo riflette la trasformazione alla quale è andata incontro la società e lo ritengo un fenomeno estremamente positivo anche per la medicina.
In questi 50 anni abbiamo assistito anche a un cambiamento del ruolo sociale del medico, soprattutto nelle piccole realtà cittadine: il dottore era un tempo considerato una vera e propria autorità, rispettata e in un certo senso temuta, ma oggi non è più così e questo è anche un aspetto rilevante della trasformazione di una professione».
CRISI DELLA SANITA’ PUBBLICA E RUOLO DELLA POLITICA
Oggi si parla di crisi della sanità pubblica, cos’è accaduto?
«Quando abbiamo iniziato la professione, decenni or sono, il servizio sanitario pubblico era agli albori e rappresentava una innovazione di gradissimo rilievo.
Il nostro sistema sanitario ha rappresentato per anni il fiore all’occhiello della civiltà del nostro Paese, un sistema che tutto il mondo ci ha invidiato.
Oggi, purtroppo, non è più così.
Uno dei grandi errori è stato quello di affidare le scelte tecniche per il sistema sanitario nazionale alla politica. Questo, inevitabilmente, ha comportato degli aspetti degenerativi.
Per essere assunti negli ospedali spesso bisognava avere il cosiddetto “santo” in paradiso. E ciò non riguardava solo la scelta dei medici, ma anche e soprattutto gli amministratori e i manager della sanità, tutti di stretta obbedienza politica. Questo non ha favorito la crescita qualitativa del sistema per cui è stato uno dei motivi che ha aperto le porte alla sanità privata, specialmente nelle grandi realtà urbane.
C’è stato un periodo in cui, ad esempio nella regione dove ho lavorato, l’Umbria, svolgendo sempre il mio servizio nella struttura pubblica, la quasi totalità delle domande di salute ottenevano risposte nel sistema sanitario pubblico. Per tanti anni la sanità privata è stata del tutto irrilevante.
L’esplosione del privato è un fenomeno abbastanza recente. Questo perché il pubblico non è stato più in grado di dare risposte adeguate, soprattutto per ristrettezze finanziarie con conseguente minore disponibilità di risorse umane e materiali, nonostante gli aumentati costi del sistema».
SANITA’ PRIVATA, FORMAZIONE E CARRIERA UNIVERSITARIA
Ma lei ha mai pensato di lavorare per la sanità privata?
«Non ne ho avuto il tempo. Svolgendo la mia attività in ambito universitario, ove il compito era non solo quello di garantire assistenza clinica, ma anche di fare didattica e ricerca, in pratica formare i nuovi medici.
Oggi sono orgoglioso d’aver formato tanti clinici, tanti dottori di ricerca. Andando in giro per l’Italia mi capita di trovare in ogni ospedale qualcuno che ho avuto come allievo. Questo mi fa tanto piacere.
La carriera universitaria non è stata semplice. Quando ho incominciato ci si avviava in un percorso il cui esito non si conosceva. Ho avuto la fortuna di poter seguire il percorso universitario, avendo buoni Maestri, e secondo i tempi previsti. Ho fatto il ricercatore e poi il professore associato, e poi quello ordinario di medicina interna, il direttore di tante scuole di specializzazione ed ho finito per fare il presidente della scuola di medicina dell’ateneo di Perugia.
Non è stato un percorso facile, ma faticoso e impegnativo; tutto questo non mi ha consentito di pensare all’attività libero professionale, che per me è stata sempre molto marginale».
Ha però coronato il sogno di ogni medico: diventare primario o responsabile apicale di una struttura. Sono belle soddisfazioni…
«Si, in effetti è andata così. Ai mei tempi, addirittura, se dopo un certo numero di anni non si riusciva a raggiungere un obiettivo prestigioso come quello, era motivo di frustrazione per un medico. Io ce l’ho fatta, magari anche con un po’ di fortuna.
Oggi le cose sono completamente diverse. Molti concorsi per posizioni apicali, magari in strutture pubbliche prestigiose, vanno deserti. Ciò perché il dirigente di secondo livello, quello che una volta era il primario, ha responsabilità oggettive molto pesanti, oberato da compiti burocratici ed è esposto alla facile denuncia e alla richiesta risarcitoria. E’ dunque una posizione a rischio.
Per questo molti concorsi vanno deserti per il timore del contenzioso, ma è anche una questione di remunerazione, nel senso che gli stipendi del pubblico oggi non sono così appetibili come quelli del privato, per cui anche un collaboratore che può svolgere attività libero professionale guadagna due o anche tre volte rispetto al suo responsabile apicale.
Si arriva poi al paradosso: alcune prestigiose attività in ambiente ospedaliero, come ad esempio la cardiologia interventistica, la neurochirurgia o la chirurgia tradizionale, considerate estremamente usuranti, vengono remunerate in maniera assolutamente oggi inappropriata rispetto al mercato privato».
Questo giustifica un fenomeno abbastanza paradossale che è la fuga dalle discipline mediche e chirurgiche altamente qualificanti, ma poco remunerative e non scevre di rischi.
Oggi si assiste alla corsa da parte di giovani medici verso discipline che hanno grande appetibilità nel mercato. E’ amaro constatare come in molte sedi universitarie vadano deserti concorsi per specializzarsi in medicina interna e chirurgia generale, un tempo considerate le colonne dell’attività medica.
Sono queste le discipline che vengono svolte quasi esclusivamente nel sistema sanitario pubblico, trattandosi di attività molto stressanti e piene di grandi responsabilità individuali. Difatti le patologie croniche oggi vengono riservate al sistema sanitario pubblico, non essendo molte remunerative per l’imprenditore privato.
MEDICI DI FAMIGLIA E MEDICI OSPEDALIERI
A proposito di medici dei famiglia, qual è il rapporto tra questa figura professionale e la medicina ospedaliera?
Il medico di famiglia è un convenzionato con il sistema sanitario nazionale, mentre il medico ospedaliero è un dipendente del medesimo a tutti gli effetti.
Un sistema sanitario pubblico, a mio avviso, non può essere “ospedalocentrico”, cioè non deve fare affidamento esclusivo sull’ospedale, deve dare attenzione e considerazione alla attività del medico di famiglia, al quale però devono essere forniti tutti gli strumenti per poter svolgere al meglio la sua funzione.
I medici di famiglia necessitano di risorse umane e materiali, nonché di supporto concreto: ambulatori, segretaria, collaboratori e facilità di accedere rapidamente agli esami laboratoristici e strumentali di primo livello.
Questa figura professionale oggi è oberata da incombenze soprattutto burocratiche e molto pesanti che la distolgono dalla sua funzione vera e propria che è quella clinica. Molto spesso è costretto a rinnovare prescrizioni mediche o certificazioni, che non è certo l’attività principale per cui si è formato.
Se la medicina di famiglia funzionasse bene si eviterebbe l’uso inappropriato e l’intasamento degli ospedali, specialmente dei pronto soccorso, dove bisognerebbe andare solo per fatti eccezionali ed importanti, non certo per problemi banali che possono essere risolti nell’ambulatorio del medico di famiglia.
Quest’ultimo per svolgere adeguatamente la sua attività deve avere a disposizione sicuramente gli strumenti informatici necessari che gli consentano di poter accedere rapidamente alla storia clinica del paziente e agli esami di laboratorio effettuati precedentemente, evitando di doverli ripetere in maniera costosa e spesso dannosa.
La situazione critica attuale a cui si è arrivati ha radici lontane. Non è stato fatto molto per la medicina di base, sono stati privilegiati spesso i grandi ospedali e poi la legge di istituzione del servizio sanitario pubblico è ormai datata per cui andrebbe emendata. Sarebbe stato necessario correggerla in tempo sulla base delle disfunzioni rilevate.
Questo avrebbe reso più efficiente il SSN. Non si tratta solo di mettere risorse finanziarie e umane, ma rendere il sistema pubblico efficiente, evitando distorsioni e sprechi».
LISTE DI ATTESA
Può farci un esempio concreto?
«Uno dei problemi più avvertiti è quello delle liste di attesa, che a mio avviso non viene affrontato in maniera corretta. E’ chiaro che se c’è la richiesta di una prestazione realmente urgente questa deve essere fornita nei tempi e nei modi corretti, ma se il sistema viene a essere intasato da richieste inappropriate o dilazionabili, ciò va solo a scapito del malcapitato che ha bisogno di una prestazione realmente urgente.
V’è da dire, peraltro, che le liste di attesa riguardano soprattutto esami strumentali.
Secondo me bisognerebbe che il medico che prescrive un esame strumentale o di laboratorio motivi in maniera circostanziata e dettagliata le ragioni della richiesta, spiegando cosa si aspetta da quell’esame. Questo basterebbe a ridurre drasticamente il numero delle richieste.
La richiesta realmente urgente non deve finire in coda alle tante altre che non hanno le stesse motivazioni; questo va a scapito del malato vero.
Ricapitolando: sicuramente ci vogliono più risorse umane e materiali, ma è anche fondamentale che il sistema sia reso efficiente e che si evitino gli sprechi.
Un ulteriore esempio: ciò che mi ha sempre visto molto perplesso è la ripetizione di esami di laboratorio, specie quelli che si riferimento a parametri che si modificano poco nel tempo. Oggi c’è la possibilità di avere memoria degli esami effettuati, facilmente reperibile nell’archivio informatico. Speriamo che a questo ovvi il fascicolo sanitario. Che senso ha eseguire una colesterolemia dieci volte nello stesso paziente?
Se vi è una urgenza vera, questa va smaltita subito, cosa diversa sono le false richieste, non motivate e inappropriate. Per alcuni esami strumentali vi sono poi centinaia di richieste che solo in una percentuale molto bassa possono dare una risposta significativa ai fini della precisazione diagnostica.
Molte volte si ricorre all’esame strumentale bypassando le tappe canoniche della clinica, quali ad esempio la raccolta corretta dei dati anamnestici che molte volte sconsiglierebbero di ricorrere ad ulteriori esami laboratoristici o strumentali».
AUTONOMIA DIFFERENZIATA
Professore, un’ultima domanda: autonomia differenziata. Cosa ne pensa?
«Penso che il sistema sanitario pubblico debba essere uguale per tutte le regioni d’Italia. L’aver creato tanti servizi sanitari pubblici regionali è stato un disastro per la sanità nazionale. Ciò ha favorito la migrazione sanitaria, soprattutto dal Sud per il Centro e il Nord. E questo è inaccettabile.
Addirittura alcune regioni garantiscono determinate prestazioni e altre no. I cittadini dovrebbero essere trattati tutti nella stessa maniera, come dice anche la carta costituzionale.
Secondo me questa autonomia differenziata accentuerà quelle che sono le disuguaglianze tra le varie regioni d’Italia, tra quelle ricche e quelle più povere. C’è bisogno di centralizzare alcune funzioni e non di frazionarle. In passato si è spesso ritenuto utile il contrario, vedi modifica del titolo V della costituzione.
A mio avviso, l’autonomia dovrebbe essere in teoria una garanzia, in pratica molte volte non si rivela tale. Penso, ad esempio, alla cosiddetta autonomia universitaria degli ultimi 30 anni, che non ha apportato sicuramente miglioramento del sistema. Gli atenei sono diventati più provinciali, non hanno più avuto turn over e non c’è stato lo scambio di conoscenze tra un ateneo e l’altro.
Ben vengano, dunque, le azioni di quelle regioni italiane impegnate in prima linea affinché non ci sia l’autonomia differenziata, ma una reale uguaglianza tra i cittadini delle varie parti d’Italia».